Basta eroi. Concedeteci il lusso della fragilità.

Gli eroi in prima linea. Gli eroi in trincea. Gli eroi che resistono. Gli eroi che combattono. Gli eroi in questa guerra. Gli eroi che non mollano. Gli eroi che muoiono. Gli eroi che non piangono. Gli eroi che non crollano. Gli eroi forti.

Gli eroi che invece devono avere il diritto di crollare. Gli eroi che invece devono avere il diritto di piangere. Gli eroi che invece devono avere paura di morire. Gli eroi che invece devono avere il sacrosanto diritto di essere fragili.

Avrei solo un segreto da confidarvi. Un tempo anche io ero un uomo forte. Quando si insegnava a voce piena e si pretendeva autorità. Ma al tempo della forza sopraggiunge quello della fragilità. E non è facile sentirsi improvvisamente delicati. Può rivelarsi un inferno se si è soli.[…]
Era una notte piena di stelle. Uno di quei momenti in cui ci ritroviamo sperduti. Briciole nell’enormità eppure il cuore si riempie di pace e scoprii che queste sensazioni non sono in contraddizione. La fragilità ci permette di scoprire la meraviglia. Il riconoscersi piccoli ci fa percepire l’infinito. È l’ostacolo che ci permette di svelare quello che si trova al di là. Ora so che la vulnerabilità è l’arma più potente.

[L’arte di essere fragili – Alessandro d’Avenia – cortometraggio ]

Quello che ci insegna questo breve cortometraggio, espressione cinematografica del celebre libro di Alessandro D’avenia, ci insegna l’importanza della fragilità, una vera e propria arte da apprendere, da concedere a se stessi e anche agli altri.
L’etimologia della parola eroe deriva dal latino heros, a sua volta, dal greco ἥρως (èros) = uomo forte e valoroso.
Il valore di un uomo determinato dalla sua forza.
Molti, troppi, sono i brand e le istituzioni che si sono appellati, e continuano ad appellarsi in questi giorni, alla simbologia dell’eroe per ringraziare i medici e il personale sanitario in prima linea.

Il rischio di utilizzare una terminologia epica e bellica è innanzitutto quello di addossare a questi uomini e queste donne una responsabilità troppo grande anche per loro: la salvezza dell’umanità.

Questo, come è semplice intuire, porta con se tutta una serie di conseguenze psicologiche non di poco conto.
Se disegniamo addosso a donne e uomini comuni, e in quanto tali fragili, l’abito del supereroe gli stiamo implicitamente dicendo che la sopravvivenza dell’umanità dipende esclusivamente da loro.
Stiamo, così, non considerando fattori molto importanti nel successo/insuccesso di fronte
all’emergenza Covid 19 quali le scelte politiche, il sistema e l’organizzazione sanitaria e anche l’impossibilità per l’essere umano di controllare tutto.
Stiamo addossando addosso a padri e madri di famiglia, a figli, fratelli e sorelle un super potere che non hanno, che non possono avere. Gli stiamo dicendo che la vita e la morte di 8 miliardi di persone dipende da loro. Stiamo alimentando in loro un senso di colpa che si porteranno dietro per anni, per non essere riusciti ad essere eroi. Stiamo dicendo loro di essere forti, per essere valorosi.

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Si stima che le percentuali di sviluppo di disturbi post traumatici da stress nel personale medico e sanitario saranno altissime nei prossimi mesi e anni, con conseguenti rischi correlati depressivi e ansiosi.
Chiamandoli eroi noi stiamo alimentando una miccia che già brucia a velocità devastanti.
Se proprio vogliamo dargli una mano, una pacca sulla spalla, un po’ di coraggio, smettiamola di chiamarli eroi. Concediamo loro la possibilità di sentirsi fragili, di piangere, di avere anche solo l’illusione di poter mollare la presa se non ce la dovessero fare. Dal valore dell’eroe al valore della fragilità. Di questo abbiamo bisogno. Una fragilità che diventa un valore indissolubile e non più solo sinonimo di sottomissione.

Fragile perciò non è solo ciò
che è debole, malato,
poco efficiente,
ma è anche ciò che
è “delicato”.
[Paolo Cicale, Il valore della fragilità]

Basta con le immagini della resistenza. Abbiamo bisogno di immagini della fragilità. Abbiamo bisogno di riconoscerci nella loro debolezza e vulnerabilità, nelle loro lacrime, nelle loro paure.

Se non sapremo passare attraverso il dolore, quello vero, che ci vede tutti come uomini e donne anche capaci di sanguinare, la guarigione più importante, quella dell’anima, non arriverà mai.

Se ce l’avessero detto prima

Di tutto il tempo passato negli ultimi dodici mesi, abbiamo la sensazione per l’appunto che sia passato.

Saracinesche abbassate, via gli abbracci, via le strette di mano, via la felicità leggera, via le feste, via la musica, via il cinema, via l’amore, via le bevute nello stesso bicchiere sudicio nei weekend, ma chi se ne frega se hai vent’anni.

Abbiamo dato tutto per scontato per tutta la nostra vita. Fare l’alba che fatica, restare a casa il sabato sera che piacere. Viaggiare che stress, al cinema che noia, il teatro è roba da fighetti, gli amici a volte possono aspettare. In palestra mi iscrivo Lunedì ma poi lunedì è già arrivato, e allora forse venerdì.

Che saremmo restati a casa per un anno, che non avremmo più bevuto nello stesso bicchiere, che il teatro avrebbe chiuso, e anche il cinema, la palestra e gli aeroporti. Se ce l’avessero detto prima.

Ci saremmo mangiati la pizza nel teatro con il gin tonic in mano mentre nell’intervallo ci saremmo intrattenuti con qualche piegamento sulle braccia.

Perché questo siamo. Ci accorgiamo della vita che passa senza essere protagonisti solo quando ci tolgono tutto.

Adesso scendiamo in piazza perché il teatro ci manca, quello stesso teatro sui cui muri abbiamo disegnato scritte d’amore per renderle instagrammabili. Cenefottevamosegha che fosse un palazzo storico.

Adesso ci scarichiamo i videocorsi gratuiti per fare i piegamenti sulle braccia, quelle stesse braccia che per trentanni abbiamo soltanto utilizzato per prendere a sberle gli altri.

Gli altri, oh gli altri, quanto li avremmo amati se ce l’avessero detto prima. Quanto avremmo abbracciato, quante cene avremmo fatto fino all’alba, quanti balli sotto le stelle. Quanto avremmo ringraziato e donato, se ce l’avessero detto prima.

Adesso vogliamo il lavoro dei nostri sogni, adesso che abbiamo riscoperto che nessuna ora del nostro tempo ha davvero un prezzo. Adesso, che forse è tardi, che non devi fermarti, ma cosa cazzo ti fermi non vedi che il mondo crolla, ci dicono, quelli che non ce l’hanno detto prima.

Passerà e dimenticheremo, che avremmo voluto saperlo prima. E arriverà un’altra volta quel dopo e di nuovo urleremo: “Ah se ce l’avessero detto prima”.

MINIMALISMO DIGITALE: 7 CONSIGLI PER VIVERE MEGLIO

“Minimalismo” è l’arte di saper riconoscere lo stretto necessario. Il “minimalismo digitale” è l’applicazione di questa idea alle tecnologie.

Non posseggo la verità e non sono una guru. Lavoro nell’ambito della comunicazione digitale e sono sempre stata una tipa “molto social”. Ho intrapreso questo percorso quasi per caso (nello specifico dopo aver visto due documentari: “The minimalism” e “The social dilemma” che trovate disponibili su Netflix) e nel giro di qualche giorno la qualità della mia vita è nettamente migliorata (se non conosci bene l’inglese non preoccuparti: su Netflix sono entrambe disponibili in italiano).

Il mio bisogno di condividere questi contenuti è dettato dal desiderio di stimolare anche voi a sperimentare delle nuove strade che possano condurvi ad una vita più felice.

  1. DISINSTALLA TUTTE LE APP CHE NON SONO DAVVERO UTILI

Ma sono tutte utili!” (scommetto che questa è la prima cosa che hai pensato). Ora ripensaci meglio: utilizzi davvero tutti i giorni tutte le app presenti sul tuo smartphone? Mantieni solo quelle che davvero utilizzi giornalmente. Tutte le altre: delete!

  1. DISATTIVA TUTTE LE NOTIFICHE

Proprio tutte? Sì. Facebook, Instagram, mail, whatsapp (io ci sono riuscita e vi assicuro che il tetto di casa non è crollato). E se succede qualcosa di urgente? Stai certo che in caso di urgenze il tuo telefono squillerà.

Disattivando le notifiche avrai una serie di vantaggi nell’immediato:

  1. Utilizzerai le tue app (soprattutto i social) in maniera più consapevole
  2. Eliminerai le distrazioni continue
  3. Aumenterai la tua produttività
  4. Risparmierai (molti degli acquisti che facciamo online sono il risultato dei continui stimoli pubblicitari a cui siamo sottoposti)
  5. Ridurrai il tempo trascorso sullo smartphone (dopo solo 6 giorni semplicemente disattivando le notifiche ho dimezzato il tempo giornaliero di utilizzo del mio smartphone da sei a tre ore quotidiane)
  6. Sarai meno stressato e più presente, meno irritato e più sereno (provare per credere)

3. MONITORA IL TEMPO QUOTIDIANO DI UTILIZZO DEI SOCIAL NETWORK

Questa possibilità è data su tutti i social network. Basta andare tra le impostazioni e trovare la voce “Tempo di utilizzo”. Anche la maggior parte degli smartphone consente di monitorare il tempo di utilizzo direttamente tra le impostazioni dello smartphone stesso.

4. SCEGLI CONSAPEVOLMENTE QUANTO TEMPO VUOI TRASCORRE SU OGNI APP E SOCIAL

Se dovessi scegliere in maniera davvero consapevole e razionale sceglieresti davvero di trascorrere quattro ore al giorno su Facebook o Instagram? Io scommetto di no. 

Impossibile che io passi così tanto tempo sui social!” (vedi punto 3). Incredibile, ma vero. Siamo così sottoposti a input continui che aprendo una notifica push (convinti che trascorra solo qualche secondo) finiamo per trascorrere almeno 20 minuti sullo smartphone prima di ritornare all’attività che stavamo facendo. 

Decidi quanto tempo ritieni sia davvero importante trascorrere sui social ogni giorno (30 minuti, 1 ora, 1 ora e 30) ed educati a non superare quel limite che ti sei dato (è anche possibile attivare un alert che ti avvisa quando hai superato il tempo di utilizzo che ti eri prestabilito)

5. DISISCRIVITI DA TUTTE LE NEWSLETTERS CHE TI INDUCONO SOLO ALL’ACQUISTO SENZA DARTI ALCUN TIPO DI VALORE AGGIUNTO PER LA TUA CRESCITA PERSONALE O PROFESSIONALE

Non temere di perdere le offerte esclusive: se ti serve davvero qualcosa saprai come procurartela.

6. PRIMA DI PUBBLICARE QUALCOSA SUI SOCIAL NETWORK CHIEDITI SE NE VALE DAVVERO LA PENA

Ogni qualvolta in cui pubblichiamo qualcosa sui social network ci apriamo alle infinite possibilità di commenti, like, condivisioni e discussioni. Anche se avremmo disattivato le notifiche, il nostro sistema dopaminergico (quello della gratificazione su cui si basa il reale funzionamento dei social) ci indurrà a controllare costantemente che tipo di effetti abbia creato la nostra pubblicazione.

Con questo non voglio dire che non dovrai più esprimere i tuoi pensieri o condividere contenuti, ma che potresti provare a farlo più consapevolmente provando a farti queste domande prima di pubblicare un contenuto:

  1. Aggiunge qualcosa rispetto alla discussione pubblica in merito?
  2. Riflette davvero i miei ideali o è solo frutto di un momento di rabbia e frustrazione?
  3. Trasmette valori positivi o risponde solo a un mio personale bisogno di sfogare la mia rabbia o frustrazione? (attenzione anche i contenuti più leggeri o ironici possono trasmettere valori positivi. Questo non è un invito a trasformarci tutti in poeti e filosofi).
  4. Credo che condividere questo contenuto possa essere un valore aggiunto per gli altri e per me stesso? (se ad esempio pubblichiamo un selfie o un momento di vita privata, dovremmo chiederci perché lo facciamo. Anche il bisogno di approvazione può andar ben, purché sia consapevole).

7. INVESTI IL TEMPO RISPARMIATO SULLO SCHERMO IN ATTIVITA’ PRATICHE

Rassetta casa, prenditi cura del tuo corpo, fa una telefonata ad un amico, fai una passeggiata, pratica sport, leggi un libro. Investire il tempo risparmiato consapevolmente in qualcosa che arreca reale benessere a te stesso migliorerà la tua autostima e ti farà sentire più padrone della tua vita.

Se doveste mettere in campo questi consigli o se lo avete già fatto, fatemi sapere se ne avete tratto benefici (e quali sono state le difficoltà).

Procurati momenti di calma interiore e in questi momenti impara a distinguere l’essenziale dal non essenziale.
(Rudolf Steiner)

Viviana Guarini, psicologa, scrittrice, communication strategist e formatrice. Ho pubblicato per Les Flâneurs Edizioni, i romanzi “Non dirlo al cuore” (2018) e “Deve andare tutto bene” (2019). 

Cara me, credo di doverti delle scuse

Cara me,

è parecchio che non ci sentiamo, io e te. E credo di doverti delle scuse.

Credo di dovertene davvero tante. Abbiamo camminato a fianco, ultimamente, come se ci fossimo perdonate la distanza, come se non fosse accaduto nulla. Come due amanti che fingono di non amarsi. Come due amanti che si rivestono velocemente dopo aver consumato la passione tra lenzuola stropicciate. Come se non contassero nulla tutti i chilometri trascorsi a piedi, in salita, in discesa, tra le macerie, tra le vette.

Cara me,

credo di doverti delle scuse oggi. Hai provato a farti sentire in tutti i modi possibili. Hai cercato di attirare la mia attenzione con gli attacchi di panico prima, la paura di morire poi, la voglia di farlo, a volte. Hai cercato di dirmi che mi stavo perdendo, che stavo rinunciando ai miei sogni, che mi stavo ritirando in penombra per la paura di cadere di nuovo. Per la paura di non essere abbastanza, per la paura di non essere amata, ancora. Mi hai condotto sino all’abisso. Hai dovuto farlo e io, per questo, ti ho già perdonato. Adesso, che la strada sembra essere in salita di nuovo, nonostante qualche frequente scivolone con cui ho imparato a convivere, io ho smesso di guardarti in faccia. Come se avessi ancora il terrore di quello che vuoi ricordarmi. Quando la tua voce flebile torna a bussarmi dietro le spalle, io fingo di non ascoltare e continuo a nascondermi. 

Cara me,

mi hai portato per mano tra le tenebre più volte solo per provare a spiegarmi che non c’è alcun male nel voler splendere. Hai provato a domandarmi perché io avessi una paura fottuta della luce. Adesso che l’anima sta guarendo, adesso che si muovono nel petto tutte le battaglie che ho lasciato a metà, io voglio guardarti negli occhi per chiederti scusa, umilmente, scusa. Per aver creduto di non meritare l’amore, per essere scappata ad ogni curva, per aver concesso a braccia indegne di farmi del male. Per aver creduto di non essere abbastanza, per aver concesso a cani randagi di farsi spazio sulle mie ferite. Per aver dimenticato di essere un leone. Per aver messo da parte la bellezza della mia voce. Per aver inseguito tutte le stelle comete che avrebbero voluto solo oscurare il mio essere speciale. Ti chiedo scusa per non averlo saputo custodire.

Ti chiedo scusa per essere rimasta indietro, per non aver accarezzato prima le mie crepe, per non averle subito trasformato in punti di inserimento per le ali. Ti chiedo scusa per aver liquidato tutto come una questione di ego da superare, ego stronzo, ego inutile. Ego sempre. Per aver bruciato i desideri, per aver zittito la mia voglia di correre e di riscattarmi. Per aver abbassato la testa ad ogni “Mettiti da parte”, “Sei la seconda”, “Taci puttana”.

Ti chiedo scusa per non averti tenuto la mano e ti ringrazio per non aver mai smesso di essere al mio fianco. Ti prometto di non lasciarti più sola, cara me. Di amarti quanto meriti, di far spazio alla bellezza, di non aver più paura di vincere. 

Perché, se c’è una cosa che mi hai insegnato, è che non c’è nulla di male nello splendere.

E allora, bambina mia, ricominciamo a splendere. Insieme.

Il volto di Pisa che non vi raccontano: la resistenza di Sant’Ermete

Il quartiere popolare diventato un esempio di lotta in tutta Italia

C’è una parte di Pisa che non vi raccontano i telegiornali, né le guide turistiche, né i grandi Hotel tra le mete consigliate della città.
Tantissimi i turisti che si affollano sotto la bellissima torre. Oltre i ristorantini pieni e la cittadina sorridente, però, c’è una storia fatta di resistenza, una di quelle che assomigliano ai libri e ai film che sin da piccoli ci hanno insegnato il coraggio di non arrendersi alla bruttura.
È la storia del quartier popolare Sant’Ermete, diventato il punto di riferimento di tutti i quartieri popolari d’Italia, quelli dimenticati dalla politica, dai telegiornali, dalle amministrazioni, dai governi. Quelli che, finite le campagne elettorali, restano abbandonati a se stessi, come se fosse ormai normale l’esistenza di cittadini di seri A e di cittadini di serie B.


Quelli che vivono in palazzi costruiti nel 1946, circondati da tubature d’amianto, in condizioni insalubri, fatiscenti, in location simili a quelle dei film horror.
Quelli in cui non esiste la manutenzione della cosa pubblica, in cui si è costretti a vivere in 5 in 30 metri quadri, quelli che alla fine imparano a combattere da soli e a cercare comunque di costruire bellezza.
Questa è la storia di Sant’Ermete, il quartiere popolare di Pisa, dove le abitazioni sono state più volte dichiarate non a norma da asl e Vigili del fuoco, dove gli alloggi non occupati vengono lasciati marcire tra mobili dismessi, piccioni morti e scarafaggi.


Dove i soldi per la riqualificazione sono stati visti solo su carta, per vincere le elezioni comunali. Dove, davanti alla spending review, questi sono stati i primi finanziamenti ad essere prontamente tagliati.
Dove quasi 10 anni fa sono state fatte promesse mai avverate.
Dove più di qualcuno si è ammalato di tumore ai polmoni, dove le strade non sono asfaltate, dove i bambini sguazzano nel fango.
Dove però tutto questo dolore ha visto nascere e fortificare una comunità che non si è arresa.
Il comitato popolare di Sant’Ermete oggi conta 150 cittadini che ogni Martedì, alle 18.00 in punto, si riuniscono, con tanto di regolamento e statuto alla mano per portare avanti la lotta.
Per chiedere la manutenzione del verde pubblico, la costruzione di nuovi alloggi più grandi, la riduzione degli affitti per quelli fatiscenti, la canzellazione delle morosità.
Perché, a dirla tutta, come si fa a pagare l’affitto per una casa circondata da tubature di amianto, muffa, intonaco che si stacca e pezzi di muro pericolanti?


Ma questa comunità non ha solo osato chiedere. Nel frattempo si è rimboccata le maniche per provare a costruire un’alternativa, quella che le amministrazioni hanno sempre prontamente evitato di vedere.
Feste di autofinanziamento di Natale, Carnevale e Pasqua, laboratori per grandi e piccini, convegni per educare alla sanità, la Festa del Pane.
Soldi raccolti per poter costruire un gazebo, delle panchine colorate, delle giostrine per i bambini.


Quello che si respira a Sant’Ermete è un profondo senso di comunità, che valica anche le mura della zona popolare.
Noi non lasciamo solo nessuno e se c’è una donna anziana che ha bisogno di noi, se qualcuno viene sfrattato e ha bisogno del nostro calore, noi arriviamo ovunque“.
E proprio mentre sono seduta a guardare i loro occhi carichi di ingiustizia ma anche di bontà, arrivano persone “fuori quartiere” a chiedere aiuto a questi guerrieri della luce.
Ci considerano cittadini di serie Z, ci liquidano come inetti e facinorosi, ma noi siamo cittadini di serie A. Noi qui non abbiamo mai lasciato indietro nessuno. Qui i nostri figli oggi hanno delle giostrine costruite con le nostre mani“.
Questo mi raccontano, mentre il loro sguardo non si sposta mai dai miei occhi, mentre io mi sento un po’ impotente e a volte li abbasso, i loro occhi trasudano sempre coraggio e trasparenza.
Perché questi cittadini di serie “Z” vengono guardati in faccia solo se mettono in atto tensioni sociali, ma mai per le loro costruzioni di bellezza.
Hanno buttato giù un progetto di ripopolamento con una proposta di autogestione degli alloggi.
Un progetto ben fatto che si basa sulle leggi dell‘autorecupero e che prevede l’assegnazione degli alloggi vuoti con criteri diversi da quelli dell’ emergenza abitativa.
Occorre ridestinarli a giovani coppie, donne sole, studenti. È l’unico modo per provare a portare avanti un serio progetto di ripopolamento che eviti di continuare a trasformarci in un ghetto”.
Hanno ben presente, gli abitanti di Sant’Ermete la teoria delle finestre rotte e la necessità di riequilibrare gli strati sociali, per favorire una contaminazione positiva. Un progetto però da anni ignorato da chi gestisce la cosa pubblica.
Passeggiando tra le strade del quartiere si resta meravigliati da un grande dettaglio: le uniche cose belle sono quelle realizzate dagli abitanti.
Tutto ciò che rientra nei doveri dell’amministrazione pubblica è brutto.
Si rimane stupiti dai meravigliosi murales che si erigono sulle facciate dalle case.
Nel 2017 abbiamo chiamato all’appello writer da tutta Italia. Hanno realizzato queste opere d’arte gratuitamente per aiutarci con l’autofinanziamento“.
Mi portano a spasso orgogliosi, a buona ragione. Sono opere stupende che parlano di lotta, di speranza, di coraggio, di amore, di favole.

Tornata a casa mi sono chiesta come fosse possibile restare sordi e ciechi davanti a tutto questo.

Perciò spero che la storia di RESISTENZA di Sant’Ermete possa valicare i confini, accendere i riflettori e ricevere giustizia ma anche emulazione
Perché, almeno un po’, dovremmo provare ad apprendere la forza della bellezza e della vita che rende questi “cittadini di serie z” eroi di serie A.

Abbiate cura della vostra felicità

Abbiate cura della vostra felicità, perché esiste.

A dispetto di ogni mondo esterno possibile pronto a convincervi che essa dipenda dagli altri, la pura verità è che la vostra felicità dipende da voi. Dal vostro modo di reagire agli eventi, di cogliere la bellezza delle piccole cose quotidiane, di saper “riconoscere ciò che nell’inferno non è inferno e dargli spazio e dargli tempo”.

La vostra felicità dipende dal tempo che saprete dedicare alla ricerca del senso dell vostra vita e dalle relazioni autentiche che saprete costruire.

Abbiate cura del vostro sorriso, del vostro corpo e della vostra anima.

Coltivate l’arte della gentilezza e della bellezza, perché esse sono le uniche strade percorribili che vi faranno davvero sentire ricchi.

Amate, senza limiti, senza pretese. Amate per il gusto di amare e di donare qualcosa di voi al mondo. Amare ci rende vivi anche nei momenti più buii.

Finché siete vivi, sentitevi vivi.

Il Festival delle Periferie che ci educa alla bellezza e all’amore

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La periferia al centro, fulcro propulsivo di musica, arte, creatività e cultura. Cuore pulsante di processi sociali, economici e culturali, non più luogo di marginalità, esclusione e degrado. Sono questi i contenuti di Rigenera Smart City, il Festival delle Periferie.

Il Festival delle Periferie è organizzato, con il supporto di partner pubblici e privati, da Rigenera Laboratorio Urbano, una realtà che ha come obiettivo quello di riportare al centro la bellezza, la condivisione, la musica, l’arte e le idee, a partire dalle periferie.

Nel corso delle edizioni del Festival tante  personalità – dagli artisti ai ricercatori, dagli studiosi agli imprenditori, dai giovani talenti ai cittadini che desiderano riappropriarsi degli spazi della propria terra, si sono dati appuntamento in una periferia, quella di Palo del Colle, per rimettere al centro il valore della speranza, dell’amore, del coraggio, motore di ogni cambiamento.

Questa realtà è nata città di Palo del Colle, a 17 chilometri da Bari, in questo Sud troppo spesso dimenticato e in cui ancora invece tantissimi giovani continuano a credere che sia possibile costruire qualcosa di meraviglioso. In questa Puglia ricca di talenti e amore per un futuro che adesso è possibile costruire qui.

La sfida è proprio questa: cambiare la Puglia dalla Puglia, non da Roma o da Bruxelles. Siamo qui e vogliamo sentirci protagonisti del mondo che sta nascendo. Non ci sentiamo più nel posto sbagliato“, diceva Guglielmo Minervini.

E infatti, sognato, immaginato, progettato e infine realizzato da una squadra di giovani e indomabili sognatori, il Laboratorio Urbano Rigenera è figlio proprio del Programma Bollenti Spiriti della Regione Puglia e delle politiche visionarie e realizzatrici di Guglielmo Minervini.

E all’interno di questa visione nasce il Festival che anche quest’anno, nella sua quinta edizione, prevede un’alternarsi di spettacoli, performance di giovani talenti, talk, dibattiti e concerti musicali con artisti come Carmen Consoli, Franco 126, Ensi. Qui il programma completo.

Le menti ideatrici di questo meraviglioso format hanno inoltre creato un filo rosso importante tra Privati e terzo settore; infatti, gli operatori economici del terzo settore enogastronomico interessati a promuovere e vendere i propri prodotti durante il Festival sono stati abbinati ad associazioni di volontariato, con l’impegno di devolvere alle stesse una percentuale dell’incasso.

E non ci sono forse parole migliori, per riassumere il senso di questo percorso, se non quelle che Nicola Vero, il direttore artistico del laboratorio, ha pronunciato in occasione di un incontro con le realtà operanti e innovative nel territorio pugliese:

“C’è una cosa di cui non potranno mai privarci: amare. E quando l’ho capito  ho iniziato ad amare, ancora più di quello che già facevo. Ho iniziato ad amare e in quel momento qualcosa è iniziato a cambiare dentro di me. Una delle citazioni che mi hanno sempre mosso è quella di Italo Calvino che recita così:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.’

Credetemi, nel momento in cui iniziamo ad accorgerci di tutto quello che non è inferno, proviamo a concentrarci su tutto ciò che è bello. Io provengo dal teatro e nel teatro ci insegnano ad agire delle parole. L’unica parola che mi viene in mente è “amare”, è qui nel petto. Provate a dirla, provate a dire il verbo amare ad alta voce: dà un senso di apertura nel petto. Il sostantivo, amore, è una parola certamente intima ma è chiusa, anche nell’accento. Guardate invece cosa succede alla vostra bocca quando dite la parola amare, è in apertura tutto, anche la bocca. Bisogna amare la vita.

E allora quello che ci auguro è di saper amare e di continuare a farlo, e di non essere egoisti, ma di continuare a farlo con generosità, senza vietarsi questa possibilità. E poi ci auguro di continuare a sognare, di non mollare mai: l’amare è l’unica cosa che fa generare nuova vita, nuove idee, nuovi progetti. Ci auguro di sapere sempre riconoscere ciò che non è inferno in questo inferno e averne cura, e dargli spazio e farlo durare per sempre”.

Le ragazze stanno bene. Il romanzo che entra nell’anima.

Ho aspettato la fine, l’ultima riga, l’ultima parola prima di decidere se dedicare un articolo all’ultimo romanzo di Davide Simeone: “Le ragazze stanno bene”. Perché durante la sua lettura ho “odiato” l’autore, ho “odiato” Danilo, ho “odiato” Giulia, alcuni dei personaggi le cui vite, con maestria, si intrecciano tra le pagine di questo romanzo.

E al contempo li ho amati. Li ho amati tantissimo, sino a piangere di dolore e di gioia, come quando sbattono in prima pagina la storia della tua vita e tu non puoi far altro che scegliere: restare spettatore o decidere di cambiare direzione.

L’autore è riuscito nelle sue storie, trasudanti di vita e di verità, a mettere nero su bianco le ipocrisie che ci portiamo dentro pur di non affrontare la vita. Pur di non vivere. Pur di non essere felici.

È un libro che si lascia mangiare a piccoli morsi, come a desiderare che esso possa non finire mai. E invece alla fine finisce e si rimane intatti a soffiare su qualche ferita aperta, ad accarezzarsi l’anima, a sapere che il destino non perdona nessuno: né noi stessi, né i personaggi che attraversano la nostra esistenza.

Credo che siano i romanzi come questo a fare davvero del bene al mondo. A farci sentire meno soli. A comprendere che, alla fine, le ragazze stanno bene. E tutto sommato anche noi.

Sfera Ebbasta: il capro espiatorio di una società che non funziona più

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Una serata in discoteca come tante che è si trasformata in tragedia. Mentre centinaia di ragazzini tra i 14 e i 16 anni ballano in attesa di un dj set del loro idolo, il trapper Sfera Ebbasta, dopo mezzanotte qualcuno spruzza spray al peperoncino, c’è un fuggi fuggi generale, i ragazzi si accalcano.

Muoiono schiacciati 6 bambini, perché, se a qualcuno fosse sfuggito, a 14 anni si è ancora bambini, e una mamma che aveva accompagnato suo figlio al concerto.

E sui social si scatena la caccia al “colpevole improbabile”.

Perché?

Perché abbiamo bisogno di trovare dei colpevoli improbabili per sentirci più al sicuro.
Così, nel nostro sentirci tuttologi, tentiamo di anestetizzare la nostra paura denigrando nell’ordine:
1) Il cantante del concerto
2) I genitori che accompagnano i figli ai concerti del cantante di cui sopra
3) I ragazzini che ascoltano “musica di merda”, che ricorda tantissimo quel famoso “In fondo se l’è cercata”.

Anestetizziamo la nostra paura perché anche questa volta la tragedia non è toccata a noi.

Perché io non lo so cosa cazzo si prova a veder morire un figlio nella bolgia di un concerto. E credo che non lo sappiano molti di coloro che oggi danno voce ad un dolore che non gli appartiene.
La verità è che ci entriamo tutti nei posti affollati e nel momento in cui mettiamo piede non lo sappiamo quante persone possa accogliere quel luogo, se sia tutto a norma o meno, e spesso non conosciamo neanche banalmente le uscite di sicurezza.
La verità è che può accadere in una discoteca o in una piazza, in una metro o su una scala mobile.
La verità è che crollano i ponti, le strade sono dissestate, i controlli non funzionano, la sicurezza vacilla.
La verità è che forse dovremmo interrogarci piuttosto su ciò che può essere migliorato dalla normativa vigente e monitorare chi dovrebbe garantirla, e che invece se ne infischia.
La verità è che dovremmo domandarci piuttosto perché i nostri figli spruzzano spray al peperoncino in una discoteca o lanciano un petardo in una piazza affollata.
E invece siamo tutti lì a pensare alla “musica di merda” o a riempire una piazza per applaudire un ministro che piuttosto che correre sul luogo della tragedia, trascorre la giornata a convincere una platea colma di adulti e bambini, che il problema sono i “negri”.
E no, il buonismo non c’entra proprio niente.

Qui il punto è che abbiamo perso il lume della ragione, perché la musica di merda non ha mai ucciso nessuno.
Una società sbagliata, invece, ha nei secoli e ciclicamente sparso sangue e vittime innocenti.

#ExInVendita: la nuova campagna di eBay per lasciare andare chi non ci ama più

Arriva San Valentino ed eBay, il marketplace tra i più utilizzati in tutto il mondo, decide di andare controtendenza con la nuova campagna #ExInVendita http://pages.ebay.it/promos/2018/private/promo-6048.html

Non sponsorizzazioni di mazzi di fiori e palloncini a forma di cuore da acquistare per dimostrare al partner la propria promessa d’eternità, ma una provocazione decisa, per aprire le porte anche all’altra parte dell’amore, quella dimenticata, quella che non vede candele rosse e cene romantiche, ma dolore, lacrime e film guardati abbracciati ad un cuscino freddo: la fine di un amore.

“Non ti amo più, ti lascio, ti… Vendo”, il claim scelto da eBay per la campagna che durerà dal 7 al 20 febbraio e che consentirà agli utenti di mettere in vendita i regali dei propri ex. Una scelta che parte dal sondaggio condotto da Ipsos che ha mostrato come ben il 37%, pari a quasi 2,5 milioni di italiani, sarebbe disposto ad utilizzare un modo rapido ed indolore per vendere i regali dell’ex partner. Una scelta destinata a far discutere i più fervidi innamorati del 14 Febbraio, gli innamorati dell’amore e dei ricordi, forse. Una scelta che non si discosta, però, dal consiglio che chiunque di noi, probabilmente, darebbe alla propria migliore amica/o che sta attraversando la fine di una storia dolorosa, soprattutto in quei casi nei quali i ricordi sono costantemente a portata di mano, di occhi, di naso, di … pelle. In quei casi nei quali i ricordi, dopo il tempo necessario per “l’elaborazione del lutto“, diventano invadenti, onnipresenti, quasi degli ostacoli per rialzarsi e guardare avanti.  I ricordi fanno parte della tempesta, potrebbe obiettare qualcuno. Quante volte l’ho sentito pronunciare mentre cercavo di nascondere negli angoli più remoti della mia stanzetta universitaria ogni singolo oggetto che mi ricordava quell’amore tempestoso, fatto di ferite sanguinanti, uno di quelli da cui ne esci, sì, ma ammaccato e col cuore a metà. Quante volte avrei voluto dire che il dolore serve, come serve la felicità, ma che l’immersione nel dolore deve avere una durata, dei tempi, dei metodi, e che a un certo punto ci si deve sentire liberi dal “dovere” del lutto. Che a un certo punto il mascara ha il diritto di restare intatto sugli occhi, quegli stessi occhi che hanno il diritto di innamorarsi ancora, di nuovo, anche mentre le labbra pronunciano “Non amerò mai più“.

Tutte quelle volte nelle quali le amiche chiedevano “dove ti porta a San Valentino?”, mentre il cuore esplodeva tra le ossa, perché lui a ridosso di San Valentino aveva deciso che io no, non ne valevo la pena. Che amici di letto forse, ma il cuore no, troppo impegno. Quelle volte in cui nella borsetta regalata per il mio compleanno, ci mettevo dentro pacchi infiniti di fazzoletti, perché aveva deciso che “sì ti amo, ma torno da lei“, con viaggi infiniti verso le ex, e le domande senza risposta, e i “che cos’ha lei più di me?”. Quelle volte in cui il rumore delle urla era più forte dei ti amo, e i “stai zitta cretina” più dei “sei bella amore mio“. E tutte quelle volte, dopo essermi disperata abbastanza da sentirmi stupida, avrei venduto volentieri ogni singolo oggetto riservato con cura per acquistare in cambio un bel percorso in un centro benessere, una borsa nuova, delle scarpe nuove.

E allora, Signori e Signore, in piedi per una campagna che finalmente profuma più di valore aggiunto che di commercio puro, una campagna che ci ricorda che la vita va avanti, sempre, e che nessuno, ma proprio nessuno può morire per la fine di un amore.

Perché in fondo, come scriveva Byron,” Il ricordo della felicità non è più felicità, ma il ricordo del dolore è ancora dolore.”